l’ultima volta che sono nata era giugno. era il calare della primavera e l’estate era già bell’e pronta per sedersi al suo posto. era il tempo del gelsomino, del fieno arrotolato e dei piedi nudi.
quella brillante trentenne di mia madre aveva caldissimo e si acciuffava i suoi grossi capelli neri in continuazione, più su della nuca. era magra ed indossava quel suo sorriso imperfetto con grande bellezza. le sue gambe erano scurite e longilinee e la pancia enorme, pronta a cedere alla vita, pure se da dietro non sembrasse affatto portare una me in grembo. dal lato invece mostrava una costa perfettamente ellittica, una sé espansa, il frutto pronto a cadere del disegno di una storia d’amore con epiloghi sempre differenti.
la fine di quel tempo era l’undici e l’undici non ero nata. era l’undici il numero esatto, ma io niente, lì ci stavo proprio bene e non avevo alcuna fretta di traslocare. non avevo neanche caldo, quindi potrei dire con certezza che mi trovassi a nuotare in un equatore caldo umido, con una temperatura costante intorno ai trenta. per forza.
il venerdì sbuffavano tutti. i medici, intendo, ché era giunto il fine settimana e dovevano andare fuori per farsi il loro weekend. ma io niente. e lei nessun cenno di contrazioni. era venerdì, era il quattordici. il sette più sette, il sette per due, insomma qualcosa col sette in mezzo e cominciavano a pensare che io dovessi avere a che fare col sette, per cui ad un tratto dissero del parto indotto. le fecero delle punture, tre – dissero – all’occorrenza. lei non arrivò quasi alla seconda per i dolori innaturali che si trascinava sul lettino.
il parto era stato indotto. e mia madre piangeva lacrime per il dolore che le era stato provocato. piangevo anche io insieme a lei, con le mie molteplici voci stridule e disuguali, ed insieme ci liberammo dei nostri umori liquidi, rigurgitandoli direttamente dagli occhi.
il parto era stato indotto. ed io ero stata indotta ad uscire. rossa, contratta, sottile. con le mani in alto. perfettamente arresa. arresa alla via.