racconti

l’ultima volta che sono nata

l’ultima volta che sono nata era giugno. era il calare della primavera e l’estate era già bell’e pronta per sedersi al suo posto. era il tempo del gelsomino, del fieno arrotolato e dei piedi nudi.

quella brillante trentenne di mia madre aveva caldissimo e si acciuffava i suoi grossi capelli neri in continuazione, più su della nuca. era magra ed indossava quel suo sorriso imperfetto con grande bellezza. le sue gambe erano scurite e longilinee e la pancia enorme, pronta a cedere alla vita, pure se da dietro non sembrasse affatto portare una me in grembo. dal lato invece mostrava una costa perfettamente ellittica, una sé espansa, il frutto pronto a cadere del disegno di una storia d’amore con epiloghi sempre differenti.

la fine di quel tempo era l’undici e l’undici non ero nata. era l’undici il numero esatto, ma io niente, lì ci stavo proprio bene e non avevo alcuna fretta di traslocare. non avevo neanche caldo, quindi potrei dire con certezza che mi trovassi a nuotare in un equatore caldo umido, con una temperatura costante intorno ai trenta. per forza.

il venerdì sbuffavano tutti. i medici, intendo, ché era giunto il fine settimana e dovevano andare fuori per farsi il loro weekend. ma io niente. e lei nessun cenno di contrazioni. era venerdì, era il quattordici. il sette più sette, il sette per due, insomma qualcosa col sette in mezzo e cominciavano a pensare che io dovessi avere a che fare col sette, per cui ad un tratto dissero del parto indotto. le fecero delle punture, tre – dissero – all’occorrenza. lei non arrivò quasi alla seconda per i dolori innaturali che si trascinava sul lettino.

il parto era stato indotto. e mia madre piangeva lacrime per il dolore che le era stato provocato. piangevo anche io insieme a lei, con le mie molteplici voci stridule e disuguali, ed insieme ci liberammo dei nostri umori liquidi, rigurgitandoli direttamente dagli occhi.

il parto era stato indotto. ed io ero stata indotta ad uscire. rossa, contratta, sottile. con le mani in alto. perfettamente arresa. arresa alla via.

 

[creazione di nicoletta ceccoli]

[creazione di nicoletta ceccoli]

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c’era

ogni storia è una soglia

c’era la piccola bici bianca che, appena posati i piedi sulla terra, mi lasciava pure le ginocchia un po’ piegate. i miei capelli che si spostavano poco col vento e le vicine di mia nonna che le strillavano della mia bellezza e che sembravo un piccolo maschio con l’anima femmina.

c’erano le sedie impagliate davanti casa, le sere del golf con i bottoni slacciati, la maglia di lana blu di mia nonna con i fiori ricamati sul collo, le sue braccia rosee e cicciotte, che io spremevo e baciavo e ci affondavo il viso dentro.

c’erano le sue ferratelle del pomeriggio alle tre, nel silenzio della cucina di sotto. versava l’impasto dorato sulla piastra e cominciava a mormorare le ave marie. un’ave per cuocere un lato, un’ave per l’altro e ogni ferratella era dorata il giusto, perfettamente croccante, sana e bella come le guance di mia nonna, accese sul fucsia.

c’era vinicio e c’era sua sorella. nella casa accanto dove mia nonna non mi faceva entrare. non è una famiglia che va bene per te, mi diceva senza sorriso. poi un giorno entrai. mi batteva forte il cuore per averle disobbedito (dio, se mi avesse visto!) eppure entrai, eccome. sua sorella giaceva su un letto rialzato, appena entrati sulla sinistra. lunghi capelli neri lasciati cadere verso il basso. poca luce dalla finestra ad illuminare quella sua voce stridula, che sembrava venire da altrove. dei versi senza parole. dei guaiti un po’ animaleschi. un corpo adulto in uno spirito appena nato, questo mi sembrava. il loro segreto era finalmente svelato. era lei, quella cosa indicibile, e la voce severa di mia nonna m’imponeva quei no per paura ch’io la vedessi e le volessi parlare e lei non mi capisse e strillasse e ch’io mi spaventassi…

c’era questo e tanto altro. pure mio nonno che mi guardava fisso con la bocca appena dischiusa e che voleva che leggessi per lui e che alzava severo il sopracciglio se sbagliavo l’italiano e che ogni tanto buttava i suoi occhi vitrei senza famiglia lontano. molto lontano.

 

Christina Tsevis aka Crosti 1

[immagine di christina tsevis aka crosti]

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