ci fermavamo sempre sulla piazzetta in cima al colle sopra goriano. era una piazzola per le soste veloci dalla nausea e ci voleva tempo per riassestare il mio stomaco rigirato dalle curve; mentre io bevevo distrattamente un succo, buttavamo per un po’ gli occhi su quell’ampio panorama, per poi ripartire. sotto di noi splendeva la valle subequana, teatro della mia libertà, dei dolori dei miei antenati, del loro amore e dei loro pianti. la culla di mio padre, quella valle, di mio nonno, di suo padre, di suo nonno… un utero immerso tra la severità della majella e la tranquillità del sirente.
mio padre guidava deciso e mia madre non aveva le interiora rivoltate. era mia nonna paterna quella del vomito nelle curve: restava a lungo muta e, anziché godersi i monti, fissava quella via vorticosa con i suoi occhi azzurri terrorizzati e, senza curarsi della valle, lasciava volare i suoi intestini fragili. solo così riusciva a non vomitare e poteva trattenere quella roba vecchia dentro allo stomaco.
il panorama delle radici di mio padre ha sempre un forte richiamo. è un vuoto denso di storia e radici e foglie e cime bianche. non ho più il senso di vomito, eppure a ogni curva ho di fronte la tenerezza del cuore di mio padre, i dolci occhi di mia nonna, la regalità di mio nonno, l’enormità – a lungo celata – del mio bisnonno. non ho nausea, né timore alcuno, non sento tristezza: restano solo lunghi strascichi antichi di vertigini in piena fronte. non ho nausea, no, semmai la certezza dell’infinito.