lettera

come in alto così in basso

diana, mi siedo ancora una volta per scriverti, nella speranza di ultimare la mia lettera. non è affatto mancanza di tempo, ma qualcosa di più irrefrenabile. la vita ha una sua corrente e non vi posso interferire, poiché rischierei di compromettere la salute dei miei esili arti, come sai. per questo motivo sto diventando sola a me stessa, per ritrovarti in questo nostro spazio scritto e fare di conto delle ultime vicende.

ricordi il palazzo morto, quello di due piani, ampio e decaduto? è lì che mi sono trasferita. pare che sia una sistemazione temporanea – o almeno per ora mi calza bene. aderisce alla perfezione a questo ticchettio profondo, che mi puntella l’addome. sto bene, sia chiaro, è che – come sai – quando alzi coperchi, due sono le cose: o li richiudi e resti cieca o li leggi ed io sto scorrendo il tutto con gli occhi, per buona tua grazia. ricordi cosa mi dicesti allora? come in alto, così in basso.

bene, è accaduto che alcuni sconosciuti abbiano violato la mia tavola apparecchiata. è successo di recente, ma non so più dirti che luna fosse – dello scorpione, mi sembra, ma non potrei giurarlo. li ho trovati lì, uno di fronte all’altro, presi dai loro discorsi e dalle loro omissioni, accomodati con le natiche sulle sedie e – pensa – ne avevano persino lasciata una libera, libera per me.

ah! che faccia tosta, non ti pare oltremodo irriguardoso? che lurida invadenza venire a banchettare nel mio luogo e cibarsi delle mie interiora! oh, ma mi sono infuriata, sai? eccome! sono scesa al piano di sotto – né ero sola, come sai, ché c’erano i guardiani con me – ho spalancato la porta e me li sono trovati tutti di fronte. uno in particolare mi stava fissando come a dire: che ci fai – tu – qui? che ci facessi io? io? ero in casa mia, io!

oh, diana, i suoi occhi erano bianchi e calzavano bene nelle orbite, ma non vi era traccia di iride e pupille, capisci? era un mostro, diana, un mostro che mi osservava senza sguardo in casa mia – in casa mia! è lì, proprio di fronte a lui, che ho avuto paura. avrei potuto reggere l’intera cena, la nullità degli schiamazzi, quell’aria superficiale e poco accogliente, quell’atteggiamento pieno di boria e di scarsa considerazione e di scemenza e di timore e di bramosia… ma non lui e quell’abisso bianco senza sguardo.

mi manchi, diana. tu avresti saputo cosa dirgli, meglio di quanto non abbia fatto io, che sono stata riportata via al piano di sopra dal mio guardiano. l’ho ringraziato, come faccio ogni sera: quando nutro incertezza, è sempre lui che mi apre dei varchi in modo certo e perentorio.

così è. aspetterò di sapere delle tue vicende e delle tue peonie. e sappi, diana, che c’è un luogo luminoso nel mio nuovo soggiorno, un angolo caldo ed accogliente vicino alle tende chiare: è lì che ad ogni fine giornata ti verrò ad abbracciare.

 

[illustrazione di benjamin lacombe]

[illustrazione di benjamin lacombe]

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racconti

perdere l’innocenza

ricordava benissimo il giorno in cui perse per sempre l’innocenza. non c’è un tempo, un’età anagrafica – diceva – in cui si perda la propria innocenza, la fiducia nella vita, la gioia, la spensieratezza del non soffro. la sua la perse allora, lì, nel novantotto.

né c’è un luogo preciso, cosicché ognuno ha il proprio. il suo era grigio e rinchiuso dentro a quindici metri quadrati. c’era una finestra sulla sinistra, ne entrava poca luce e la sua ermeticità lasciava fuori i rumori pomeridiani del quartiere. c’era una sterile scrivania rettangolare con gli angoli appuntiti e dolorosi, un lettino sulla destra, bianco e nudo, due sedie – con un rovo di mortali spine sotto. il medico regnava di fronte a loro, con gli occhi sdraiati su pagine di referti, un paio di occhiali stanchi e un volto ignavo e sterilizzato.

il medico pronunciò poche parole, secche, tinte di raucedine, piene di morte. ne bastarono quattro o cinque per farla venir meno. sentì un fischio provenire dall’oltretomba, l’eco sottile di un richiamo, che contasse alla rovescia ore e poi giorni – e poi mesi. sentì il cuore dentro frenare e franare. poi sentì battere la fronte. sentì la saliva ingoiarsi se stessa. sentì aprirsi una voragine sotto ai piedi fragili. sentì freddo, fiamme di gelo – in fondo. sentì il tempo e il suo non guardare in faccia a nessuno. sentì sua madre ingerire il pianto e far sparire gli occhi sotto al pavimento.

un terremoto le attraversò la pelle. ebbe paura del futuro. provò rabbia verso il passato. odiò quel presente. detestò quella vita. si dolse della malattia. sfidò la morte – faccia a faccia.

ricordava benissimo il giorno in cui perse per sempre la sua innocenza. da allora non rispose mai più sto benissimo, grazie! semmai solo un pallido bene, grazie. – e pure senza esclamativi. era seduta in una stanza chiusa da quattro mura di silenzio e il medico davanti a sé le disse in che modo brutale suo padre sarebbe morto molto presto.

 

[ph. kylli sparre][ph. kylli sparre]
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