lettera

è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro

senza di me un domani mi svegliai.
avevo il collo inumidito dai percorsi della notte e la pelle intrisa degli incontri segreti.
senza le mie notti che scorrono rapide, i giorni non m’apparirebbero così allungati e fiacchi.

(la luce è un respiro che sopravvive per l’ombra dell’apnea).

senza quel domani, non arderei del desiderio d’invertirmi, di capovolgermi in aria nei tempi, come se nuotassi.
è un perdere senza perdermi.
senza questa forza in me centripeta, non mi spingerei nel vortice dell’abisso mio.

(m’ingoia, null’altro posso: l’assecondo).

senza allontanarmi dallo stare, non potrei affondare nel mio essere, né nell’esserci.
è nella natura delle cose mie: il distare.
senza ch’io distassi in questi cieli, il vicino non sarebbe mai toccato e il lontano sarebbe un’eco penosa e invera.
senza queste fitte impervie sotto alle costole,

(una a una, sì che, premendo, sfiatino di vita)

non abiterei luoghi tali da rendere vere le concezioni del mondo.
senza questo dire tutto al singolare, non il plurale potrebbe nascere, se non storpiato e mancante di perenni assenze.
senza quest’uno, anche scolorito, anche stiepidito, nessun due potrebbe sopravvivere indenne.

è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro.

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lettera dell’attimo prima

nell’attimo prima di alzarmi, conto le ore dormite e ripercorro quei luoghi lontani e offuscati, in cui un pezzo essenziale di me è stato di notte. sa tutto di crema al limone ed è vestito di zucchero a velo. il caldo ancora mi stringe a sé e vorrebbe continuare, se solo io restassi, se solo io non l’abbandonassi.

nell’attimo prima di scegliere una canzone, ripenso a quella volta in cui vagavo spenta in centro. tutto faceva chiasso, mentre io mi sentivo morire dentro. avevo perso la mia crema al limone. mi ritrovai ad ascoltare musica in un negozio enorme e pieno di luci bianche, con due grosse cuffie nere che non mi coprivano solo le orecchie, ma anche una parte di mente e uno spicchio di cuore. ascoltavo quella voce angelica cantarmi nelle tube, cantare solo per me. intorno era pieno di corpi, eppure io ero sola – e pure in piena trasformazione.

nell’attimo prima di mangiare, penso a mio padre e torno ai miei pensieri di allora, solo miei. mangiavo solo le cose che mangiava anche lui, dicevo le cose che diceva lui, mi arrabbiavo come si arrabbiava lui, suonavo la sua chitarra stonando, invece lui le esaltava l’anima. poi un giorno ho smesso. ho capito chi fossi e ho tirato fuori con coraggio la disobbedienza e la contestazione. tuttavia non ho mai abbracciato nessuno come ho abbracciato lui.   

nell’attimo prima di svenire, mi alleggerisco. sento sparire il confine tra me e la mia materia e sento di compiere un passo in avanti. non indietro, in avanti. gli occhi si sfibrano e le immagini prevedibili e regolari sbiadiscono in un liquido puntinato e grigiastro, dai contorni un po’ viola e un po’ no. le orecchie anche si sfumano in un’eco sempre più lontana e quello, che fino ad allora era di qua, in quel momento se ne va al di là. mi siedo o mi sdraio, così non sbatto. tanto io so bene com’è: me ne vado un attimo, ma torno subito.

nell’attimo prima di fine anno, penso sempre che l’anno sia appena iniziato. l’anno mio inizia a settembre, non a gennaio. a gennaio non ho le forze, a gennaio sto al chiuso e sotto alle coperte. quello che tutti chiudono in quei giorni chiassosi, che sarà poi non so più cosa, io lo chiudo ad agosto, prima di andare in vacanza. poi a settembre sento la forza dell’inizio, un impeto di energia e vita, quasi come quando guardo un foglio bianco e la testa è già piena di parole: è l’istante prima in cui non me ne viene in mano neanche una per iniziare, poi comincia a sgorgare un fiume.

nell’attimo prima di ricomporre i pezzi, mi chiedo se la cosa vada riparata o lasciata a se stessa. i pezzi sono nuova vita, no? un vaso rotto non torna mai più vaso, ci sarà sempre un alito di spazio tra una scheggia e l’altra, in cui la materia è tornata a essere aria. i pezzi sanno di vita nuova e per me non occorre ricomporli. basta dare loro un nuovo nome e si sentiranno appena nati, anziché appena morti.

nell’attimo prima di spegnere la luce, penso alla paura del buio. alle volte la sera, quando proprio non ne potevo più, scappavo al piano di sopra per andare in bagno. tutti restavano nel salone, mentre io in solitudine uscivo, accendevo la luce e correvo svelta su per le scale, facendone due per volta. uscita dal bagno, un giorno trovai la luce spenta. richiusi la porta, mentre il cuore si stava per staccare dal resto di me. non mi sono mai fidata del buio, perché non mi ci sono mai sentita sola. nel buio c’è sempre stato qualcuno alla mia sinistra.

nell’attimo prima di addormentarmi, prego. lo facevo con mia madre, dentro al letto suo. ci raccoglievamo sotto alle coperte, noi due da sole, e io ripetevo quelle nenie dopo di lei. frase per frase, fino a impararle, ché non sapevo ancora leggere. sembravano poesie, sembravano un dono dalla sua alla mia bocca. una musica solo nostra, in cui il resto del mondo era solo pensato e non era lì dentro. restava fuori. le mie piccole mani erano chiuse tra le sue e il suo profumo, sentito in altre vite, si attorcigliava come una corda lenta e dolce tra di noi. le mie idee di oggi si costruirono lì, in quei momenti segreti con lei.

l’attimo non può essere soltanto un punto. l’attimo è più grande di un punto. è un punto che racchiude un infinito.

“è così che muoiono le infanzie, quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. non c’è allora altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva. la vita è breve, ma in essa entra più di quel che siamo in grado di vivere”.

josé saramago, “di questo mondo e degli altri”

[immagine di ari-zuka, tratta da “pop surrealist”]

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lettera da palermo

che ti sia di consolazione la bellezza.

mi trovavo di fronte alla fragilità di un tramonto visto dall’aereo, che squarciava in due il cielo col suo sangue rubino, e poi a quella dell’atterraggio, che sembrava sbriciolare la terra sotto alle ruote. sono giunta in questa città, che taceva più di parlare, tra i suoi vicoli bui e pieni di occhi. i suoi abitanti succhiavano linfa dall’asfalto inaridito e camminavano tra le debolezze di una ricchezza passata e cenni di una moderna precarietà. 

mi sono trovata a passare attraverso sapori, che non potevo raggiungere fino in fondo e che mai sarei riuscita a possedere – ma che già si stavano impossessando di me. ho incontrato un uomo seduto in un angolo, ripiegato sui suoi arti deboli, che pareva non vedere, né ascoltare, e che ha ricambiato un timido “arrivederci” con alcune sillabe di gentilezza, scritte con la saliva sulla lingua. la sera stessa sono stata stretta dall’abbraccio in osteria della nostra ospite, che, sorridendo, ha pronunciato quel “a presto!”, a cui tutte abbiamo creduto fino in fondo e che ci nutrirà – ne sono certa – di remote nostalgie. una città che t’accoglie, questo posso dirti, per non lasciarti più andar via. piena dei suoi errori, della decadenza di cui si è imbevuta e dell’oro, che la fa ancora luccicare. e se pensi di essere splendida, gentile, profonda, dura e fragile – come un cristallo – è solo perché non sei mai stata al cospetto di palermo.

che ci sia di consolazione la bellezza – dicevo – l’armonia, che giace nell’ordinata disposizione delle proporzioni; l’impeto, che pulsa nell’asimmetria delle parti; la rovina, che ci sottrae e ruba lo sguardo per l’inimicizia delle parti. la bellezza che strozza, una sottile seduzione, che pervade e inebria i sensi, un interstizio, in cui fluttuano e danzano chi percepisce e chi viene percepito, un accostamento tra diversità, che fluiscono in questo stesso luogo trasversalmente, come in un gerundio mai fisso.

come potrebbe sopravvivere il mondo senza la bellezza? senza l’inesorabilità del tempo che scorre, ma resta fisso in questo luogo d’incontro, senza lo stupore, che cattura l’anima e non la lascia più uguale a prima.

qualcosa di se stessi e degli altri si perde e si conquista ogni giorno, ti dico. e l’imbrunire sta ora giocando col mio sguardo e mi fa colare addosso un fresco blu. mi lancia nubi come petali e fiori come minuscoli cieli, mentre languida e quasi felice vago immobile per l’aspro odore scuro di queste sere qui e ti racconto di questa città interiore. 

[“olympia” di edouard manet]

“non mi piace la gente la cui mente non sa riposare in silenzio, il cui cuore è granitico agli altri senza sosta, la cui sessualità è perennemente insoddisfatta, il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo. ”

alejandro jodorowsky

 

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lettera bianca

quattro maggio duemilaventuno

cara bianca,
la vita scorre e lo fa a modo suo, talvolta a prescindere da noi. è un periodo assai granitico e caldo, momenti di incertezza si intrecciano a grandi, potenti gioie. piove sottile e senza vociare. l’assiolo torna ogni sera e lancia i suoi discorsi anche di giorno.
gli esseri umani provano ancora ad alleggerirsi lo stomaco, vomitando sugli altri le responsabilità proprie. tuttavia il dialogo fermo restituisce loro i propri macigni. a ognuno il suo – e così sia.
ora il venerdì è fresco come un tuffo in un torrente, sa di sale e di mare e di terra e di radici intrecciate, è avvolto da un’aura innamorata, parla piano e cammina lento. come un fiore, parlo con l’aroma dei miei petali di cotone bianco, sorseggio pioggia selvatica e mi stringo nell’abbraccio azzurro del mio mare, che mi dorme ogni notte accanto. come un fiore, le mie parole paiono polline sfumato che scorre lieve, accompagnandosi al vento, e accolgo il passare del tempo con la certezza della vita il giorno dopo.
non sono più stanca, né inciampo: io sono.
ed è tutto da qui, con gioia – mai scontata, sempre scelta.
e basta.

[image by martina heiduczek illustrates]
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lettera della nascita

in tua assenza, io sono nata di venerdì. sono nata ch’era caldo e tutti avevano fretta, tranne mia madre. mio padre lo mandarono via e tornò che io ero uscita svogliatamente. sono nata che ci ho messo tre giorni, pensata e ripensata. sono nata già vecchia e con la mano destra posata sul mento. sono nata con la pelle di cristallo. sono nata già sola, già lasciata. sono nata e nella linea paterna ero la prima. sono nata e mio padre disse: barbara! non porterà il nome di nessun altro – vivo o morto. sono nata e mia madre stava per morire. sono nata e non ne ero convinta. sono nata gemelli ascendente leone con la luna in ariete e mercurio in cancro e venere in toro – e si vedono tutti nel modo in cui mi muovo e in cui sto ferma. sono nata e volevo solo una sorella. sono nata sveglia e gentile. sono nata per imparare a essere fiera. sono nata quasi senza posto, per costruirne uno. sono nata per dire: io sono. sono nata alla fine delle scuole e con l’oro dei campi di grano come radici. sono nata piena di parole e di silenzi. sono nata verde, per diventare azzurra. sono nata e ho cominciato a fuggire. sono nata pesante e, crescendo, sto imparando la leggerezza e a restare e a scegliere e a pronunciare i no e a ad amare in profondità e senza se e senza ma.

sono nata per includerti.

non mi so separare
non amo la fine
la morte accade – sì
e intanto mi spezzo
torno indietro
lacrimo rapida
non accetto gli addii
serro le labbra
scoppio nel petto
– e mi frantumo dentro

[ph. bi]

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lettera dell’infanzia

c’era la piccola bici bianca, che, posando io i miei brevi piedi sulla terra, decisi a radicarsi, mi lasciava pure le ginocchia un po’ piegate; i miei capelli, che si spostavano un poco col vento gentile e le vicine di nonna a., che le strillavano della mia bellezza e di quanto sembrassi un piccolo maschio dall’anima femmina.
c’erano le sue ferratelle, di nonna a., preparate durante il silenzio del pomeriggio alle tre nella cucina al piano di sotto. ella versava l’impasto dorato nella piastra, mormorava un’ave maria da una parte, un’ave maria dall’altra e ognuna di esse usciva cotta perfettamente: croccante, bella come le sue guance accese di rosa.
c’era v. e c’era sua sorella, nella casa accanto, dove mia nonna non mi faceva entrare. non è una famiglia che va bene per te, mi diceva senza sorriso. poi un giorno vi entrai: mi sentivo una ladra di libertà e mi batteva forte il cuore, per averle disobbedito, ma entrai – eccome. la sorella innominabile di v. giaceva su un letto, appena entrati sulla sinistra. aveva dei lunghi capelli neri, lasciati a cadere verso il pavimento. una voce stridula e non armoniosa, che sembrava venire da altrove, dei versi senza parole, circondavano la stanza grigiastra. l’avevo sempre immaginata piccola, a sentirla, una bambina capricciosa e fuori dal comune, invece era lunga e sbordava dal letto come una coperta. il loro segreto era lei e la paura di mia nonna era ch’io la vedessi e le volessi parlare e volessi pure delle risposte a quei miei interrogativi indicibili su di lei.
c’era questo e pure mio nonno f., che mi guardava fisso con la bocca appena dischiusa e gli occhi accesi di un intenso e freddo blu, che voleva solo stare seduto e che io leggessi per lui.

[ph. bi]

ha capelli
il cielo
ha fili di vita
appesi
e ricami scuciti

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lettera della neve

se la neve non giungerà, andremo noi dalla neve. i nostri passi scricchioleranno tra il silenzio dei rami, mentre annuseremo il gelo del nord e mai avremo paura di perderci. e, se accadrà di smarrirci, sarà per ritrovarci più nuovi e tenaci di prima. ammireremo, divertiti, i colori inversi della primavera. io ti dirò che le montagne sono un oceano con l’orizzonte più vicino.

non temerò di mostrarti la mia ossatura sacra e, con quella fiducia che insegnano i cavalli, ci guarderemo a fondo negli occhi. tu poserai il tuo fiato sulla spalla mia e io il mio in cima alla tua. ci indicheremo i luoghi segreti dei nostri istinti e troveremo riparo dal mondo fuori in un dentro, che risuoni armonioso come un bosco selvatico – coi suoi abitanti nascosti.

ci nutriremo, ci puliremo, ci annuseremo, ci desidereremo, ci cercheremo, ci troveremo. cammineremo, ci fermeremo, ripartiremo al galoppo, sgropperemo calciando coi posteriori e, se ci colpiremo, non ci feriremo più di quanto già feriti siamo.

non abbiamo tutto né ci manca nulla. il mondo selvaggio è lì e ci aspetta. furioso e gioioso.

[ph. bi]

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lettera della notte

non temo la notte, quanto invece il giorno. egli e le sue mendaci dichiarazioni del vero e del giusto, di ciò che vuole sia amato, esaltato, creduto. io non credo nel giorno, nel suo sfacciato dirsi, nel suo ostentato sbattersi in faccia agli altri. non mi fido del suo portamento superficialmente fiero, del suo far luce così violento.

nella notte, in quella trovo rifugio e similitudine. nelle sue profondità, nelle sue timide considerazioni, nel mistero della sua bellezza, nei suoi bui accoglienti e mai esigenti, nella decadenza del suo silenzio appena accennato, in quella sua nebbia di umile certezza che nulla sia mai sicuramente certo.

la notte è mia sorella, col suo tenue essere sussurrante notte e mai accecante giorno.

[ph. bi]

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lettera dei morti

recentemente, e temo che ciò sia dovuto agli eventi degli ultimi due anni, ho scoperto che i morti non muoiono mai. non è una questione di ricordi, che pure si riproducono di mente in mente, quanto piuttosto di presenza e di dialoghi senza parole. potrebbe essere per la metafisica dell’amore o la fisica dei quanti, che poco conosco. eppure i morti tornano nei nostri luoghi e ci parlano.

pensa a mio padre, che era di poche parole strozzate, eppure aveva gli occhi che urlavano e il sorriso pure, che dialogava sottovoce. ecco: egli torna, quando pure io non lo vedo. e non è suggestione, fa’ attenzione, non è desiderio o mancanza: è vera presenza. e come potrei vederlo io, così poco irrazionale e suggestionabile, così terrena e votata ai prati e alla carne? negli animali. egli li sceglie come canale, si sintonizza e arriva sereno.

cerco una risposta ed essa giunge chiara e forte, dopo che ho da poco posto la giusta domanda. è una potente magia, penso, ma di magico c’è – forse – il mistero della vita e della morte. è pragmatica ormai, un insieme di segni che significano poco a se stessi e molto al nostro dialogo interiore, mio e suo e un po’ del mondo fenomenico.

non esistono i morti, non vivono, eppure sono. ed egli è sì tanto, ch’io non posso far altro che dirgli ogni volta: oh, eccoti! m’hai sentito pure questa volta e sei apparso con le tue vesti naturali di quest’oggi. quanto a te, non rattristarti di queste poche righe, poiché non son fatte di tristezza, semmai di malinconia e – tanto – d’amore.

[image: jeff soto artist “snow owl”]

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