racconti

granelli di sabbia

alla voce “accadimenti”

[ph. bi]

la bellezza dei granelli di sabbia sta nel loro bersi i raggi di sole, in quel fenomeno ascetico di succhiarseli dentro fino al midollo e rilasciarli sotto forma di calore per le ossa. era questo che pensava, mentre se ne stava sul bagnasciuga, sotto al sole infuocato delle tre. si era sdraiata in disparte, separata, distante dal vociare familiare dei suoi, raccolta nei pensieri di un luglio prossimo alla luna piena. amaro era il sentimento di non sentirsi compresa il più delle volte, laddove comprensione stava anche come contrario di esclusione.

la verità era che si sentiva tagliata fuori dallo sguardo di suo marito. e pure esclusa dalle ottusità, dalle liti quotidiane, dai minuti sempre troppo spaccati, dai panni da stirare impilati sulla sedia a capotavola, dal citofono che suonava ma non si sapeva chi fosse, dalle scadenze protratte, dalla morsa alla bocca dello stomaco delle preoccupazioni altrui.

giaceva lì, come fosse compresa nei minuscoli granelli di sabbia, un tutt’uno dorato e splendente in quel quadro estivo e pacato. le voci degli altri le aveva allontanate coi suoni del suo respiro. sembrava quasi assente, sfumata, un po’ trasfigurata. il mare era debole e lo sciabordio una musica lenta, costante come il ticchettio di un orologio segna spazio, fatto di ere e non di ore.

aveva portato le ginocchia piegate verso il grembo e le aveva puntate dritte verso il cielo azzurro, certo quanto vero era il movimento del suo braccio destro. aveva disteso il suo telo chiaro direttamente a terra, per consentire alla sabbia di massaggiarle le spalle e la schiena. il braccio sinistro giaceva lungo il corpo, lasciato a riposo, come a spegnere il suo mondo razionale, non appena distesa. la testa era lasciata morbida, ad assecondare il vento leggero che le stemperava il calore sulla cute.

amava il mare da sempre, persino da prima. non avrebbe mai potuto abitare in un posto troppo internato. l’acqua era il suo elemento primario, il suo luogo segreto, la sua tana: era lì che si sentiva a casa. si era lasciata sola pure da se stessa, strappata dal corpo accalorato. un piccolo astro, che vagava nell’universo del primo pomeriggio, era diventata e si aggirava in atmosfere sottili e vacue, colorate da tinte pastello leggermente impallidite.

una madre differente, così si sentiva, di quelle che alzano la voce, sì, ma che portano le proprie labbra a leccare le antiche ferite dei figli. vedeva in sua figlia una ginestra coltivata e un romantico ago di pino in suo figlio. la libertà, quella avrebbero dovuto imparare, e lei sapeva come insegnarla loro, estirpandogliela dalle loro nature sepolte.

il vento s’era fatto più intenso e il suo corpo ebbe un sussulto. pensieri lontani le colpirono il baricentro della mente accaldata, tanto da farla girare su se stessa. era stata una scossa quel vento, uno scatto che la riportò dove giaceva. proprio lì. era il vento di ponente, quello che gira col sole, quello che si sente tutto il giorno sotto alla pianta dei piedi.

inquieta e senza accorgersene, cominciò a maneggiare quei granelli con più insistenza e più forza. piccoli vortici le si cominciarono a innalzare dentro, quasi a stizzirla e a innervosirla per quel ritorno verso di sé. in fondo vagare era nel suo innato essere e nulla era più rassicurante di andare girando come un pesce in preda alle sue correnti certe.

intanto il vento portava via granelli su granelli, mentre ella continuava ad affondare le sue dita lunghe in basso, sotto alla sabbia, per poi tirarla fuori ancora e rilasciarla libera per l’aria.

– scusa…

sussultò, un po’ stordita, mentre una voce anonima alle sue spalle interruppe quei moti rivoluzionari.

– sì?

si sollevò appena sui gomiti, dimenticando le gambe ancora in grembo. un uomo slanciato e chiaro la fissava negli occhi. portava i capelli un po’ lunghi e aveva chiuso una musica sconosciuta dentro alle orecchie.

– scusa, non è mia abitudine…

bello lo era e pure corporeo; non percepito o immaginato, né sfumato, né di spirito: era vero, un uomo di carne.

– scusa, ma sai… la sabbia, il vento… non lo faccio mai, perdonami.

quel dire un po’ impacciato eppure garbato risuonava attraverso una voce soffice ma sfuggente. il cuore le oscillò a ore tre.

– scusa, non lo faccio mai. ma è da un po’ che mi stai ricoprendo di sabbia. che dici, può bastare?

 

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