lettera

lettera della neve

se la neve non giungerà, andremo noi dalla neve. i nostri passi scricchioleranno tra il silenzio dei rami, mentre annuseremo il gelo del nord e mai avremo paura di perderci. e, se accadrà di smarrirci, sarà per ritrovarci più nuovi e tenaci di prima. ammireremo, divertiti, i colori inversi della primavera. io ti dirò che le montagne sono un oceano con l’orizzonte più vicino.

non temerò di mostrarti la mia ossatura sacra e, con quella fiducia che insegnano i cavalli, ci guarderemo a fondo negli occhi. tu poserai il tuo fiato sulla spalla mia e io il mio in cima alla tua. ci indicheremo i luoghi segreti dei nostri istinti e troveremo riparo dal mondo fuori in un dentro, che risuoni armonioso come un bosco selvatico – coi suoi abitanti nascosti.

ci nutriremo, ci puliremo, ci annuseremo, ci desidereremo, ci cercheremo, ci troveremo. cammineremo, ci fermeremo, ripartiremo al galoppo, sgropperemo calciando coi posteriori e, se ci colpiremo, non ci feriremo più di quanto già feriti siamo.

non abbiamo tutto né ci manca nulla. il mondo selvaggio è lì e ci aspetta. furioso e gioioso.

[ph. bi]

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lettera

lettera della notte

non temo la notte, quanto invece il giorno. egli e le sue mendaci dichiarazioni del vero e del giusto, di ciò che vuole sia amato, esaltato, creduto. io non credo nel giorno, nel suo sfacciato dirsi, nel suo ostentato sbattersi in faccia agli altri. non mi fido del suo portamento superficialmente fiero, del suo far luce così violento.

nella notte, in quella trovo rifugio e similitudine. nelle sue profondità, nelle sue timide considerazioni, nel mistero della sua bellezza, nei suoi bui accoglienti e mai esigenti, nella decadenza del suo silenzio appena accennato, in quella sua nebbia di umile certezza che nulla sia mai sicuramente certo.

la notte è mia sorella, col suo tenue essere sussurrante notte e mai accecante giorno.

[ph. bi]

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lettera

lettera dei morti

recentemente, e temo che ciò sia dovuto agli eventi degli ultimi due anni, ho scoperto che i morti non muoiono mai. non è una questione di ricordi, che pure si riproducono di mente in mente, quanto piuttosto di presenza e di dialoghi senza parole. potrebbe essere per la metafisica dell’amore o la fisica dei quanti, che poco conosco. eppure i morti tornano nei nostri luoghi e ci parlano.

pensa a mio padre, che era di poche parole strozzate, eppure aveva gli occhi che urlavano e il sorriso pure, che dialogava sottovoce. ecco: egli torna, quando pure io non lo vedo. e non è suggestione, fa’ attenzione, non è desiderio o mancanza: è vera presenza. e come potrei vederlo io, così poco irrazionale e suggestionabile, così terrena e votata ai prati e alla carne? negli animali. egli li sceglie come canale, si sintonizza e arriva sereno.

cerco una risposta ed essa giunge chiara e forte, dopo che ho da poco posto la giusta domanda. è una potente magia, penso, ma di magico c’è – forse – il mistero della vita e della morte. è pragmatica ormai, un insieme di segni che significano poco a se stessi e molto al nostro dialogo interiore, mio e suo e un po’ del mondo fenomenico.

non esistono i morti, non vivono, eppure sono. ed egli è sì tanto, ch’io non posso far altro che dirgli ogni volta: oh, eccoti! m’hai sentito pure questa volta e sei apparso con le tue vesti naturali di quest’oggi. quanto a te, non rattristarti di queste poche righe, poiché non son fatte di tristezza, semmai di malinconia e – tanto – d’amore.

[image: jeff soto artist “snow owl”]

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la dirimpettaia #4

alla dirimpettaia importava poco che le impalcature stessero crescendo sotto ai suoi piedi. gli operai non avevano ancora raggiunto il secondo piano, il suo, ed ella continuava a spostarsi dal dentro al fuori con l’audace disinvoltura di sempre. fumava distratta, mentre nutriva le sue piante e stendeva i suoi panni schivi in faccia a quel vento prepotente, che proveniva da est. non si preoccupava se sopraggiungesse polvere e sembrava non avere mai freddo – mai, mentre io continuavo a scrutarla dal mio balcone debole e gelido.

è forte! pensavo, guardandola insistentemente. è una donna tenace, la dirimpettaia: sfidava l’autunno, il buio, le impalcature, gli operai, il lavoro, la famiglia, i fantasmi, la luna, le ore stanche della sera e pure le incombenze da sbrigare. lasciava le sue luci accese con decisione e senza ansie, mentre io avevo già spento quasi tutto, per far appassire la mia giornata. avessi avuto già solo metà della sua forza, sarei atterrata in cima al suo balcone, per stringerla e dirle: vorrei anche io fare così come lei fa!

volerei lì a chiederle consigli e pure a dirle che, lo sa, dirimpettaia? stanno cedendo molte impalcature in quest’oggi prolungato, in cui s’aprono tempi duri per chi formula più domande che risposte e per chi dubita e fa del dubbio non un’incertezza, ma una verità inequivocabile. ora c’è una vita più crudele, eppure lei saprebbe restare coraggiosa, io lo so, e apprezzerebbe chi stonasse coi no e abbracciasse i e i sia e chi pensasse forse e dicesse forse e aspettasse ad agire. so ch’ella continuerebbe col suo fare, come se niente la toccasse emotivamente, e resterebbe calma e ben eretta e fiera, nonostante questi tempi inscalfibili di spazi chiusi.

[disegno di amy sol]
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racconti

la dirimpettaia #3

io e la dirimpettaia ci incontrammo per alcuni mesi in cima ai nostri balconi. il buio intorno ci ricopriva e le sere ci attendevano sempre, per rinnovare il nostro appuntamento segnato da una sigaretta da fumare insieme in solitudine. io con me e lei con se stessa. distante per un po’ dalla sua famiglia, usava muoversi molto ed era sempre piena di cose da fare. io molto meno e restavo lì, immobile, a osservare l’aria del giorno, che ormai se n’era andato.

una sera era di nuovo con me lì di fronte, rapida nei suoi panni da ritirare, con la sua fretta a scandirle le mosse e la sua sigaretta ad accompagnarla nel suo fare. nel tempo in cui lei aveva ingoiato quei fumi stanchi, io ero ancora a metà e poco dopo mi ritrovai da sola nel balcone di tutte le volte. a un tratto nell’altro suo balcone comparve sua figlia.

la figlia della dirimpettaia stava facendo la ruota lungo l’asse della porta finestra. quant’è gioiosa, pensai, poiché ne faceva a ripetizione, senza stanchezza e con enorme leggerezza. poi si alzò, inneggiò con le mani verso il soffitto, come a indicare uno a uno i pianeti lontani. e allora mi ricordai di quanto fossi stata felice io a fare le ruote da bambina: una sull’altra, tutte affilate finché ci fosse stato spazio. poi sentivo una lieve tensione all’inguine e mi dicevo quanto fossero ben fatti tutti quei cerchi concentrici.

quella sera la luna non c’era, sarebbe nata nuova quella stessa notte. l’aria era fresca e inodore. rientrai, il profumo del cedro stava scaldando la mia stanza, condita dai fiori che avevo comprato quel giorno. fiori freschi per me, nuovi, vivi, gialli.

avevano un grande fascino quelle sere condite da cose minuscole e immense, erano ricchi i balconi, belle le persone con cui m’incontravo anche solo per pochi minuti e sempre per caso. ci scrutavamo ognuno da lontano, con uno sguardo breve in quell’abisso tra i cortili a dividerci, eppure così insieme, lì, allora, come in un paese parlante e curioso e mai stanco e sempre vivo.

[image created by martina illustrates]

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lettera

lettera dall’isola

l’isola mi consegna ai quattro punti cardinali. mi circonda e mi porta in grembo coi suoi venti predominanti, che soffiano da nord-ovest e da sud-est. mi buca la pianta dei piedi, mi schiaffeggia sulle onde e mi toglie talvolta il fiato dalla gola. mi ipnotizza e m’incolla gli occhi sui suoi orizzonti dai colori ogni giorno diversi.

l’isola mi porta ai fichi d’india, ai dirupi nel blu, alla catarsi di fronte ai segreti dell’immobilità solo apparente del mare. mi addormenta alle tre e mi fa ribollire la pelle. sbuffa dalle onde, fa sorgere lune rosse notturne, parla con la voce intima dei genitori.

l’isola mi trasforma da cerchio a spirale, divide il mio corpo per zero e partorisce pensieri nuovi. e allora la mia paura più grande diventa l’oblio. mai, per alcuna ragione al mondo, vorrei essere vittima della dimenticanza e perdere di vista gli angoli dell’infanzia, che ancora conservo nel cuore, e le gioie, che mi spingono in avanti lo stomaco, e gli abbracci profumati di sale – e i capelli come fili di prato giallo arso al sole.

l’isola sì mi acceca che dunque non so più i nomi dei blu e degli azzurri e dei verdi e le parole in testa fluiscono come fa una tartaruga marina quando alza il capo per poi nuotare sicura di sé e sprofondare nel suo abisso così noto che mai teme e rido a guardarla e talvolta divento umida negl’occhi e mi commuovo e che gratitudine mi fa sbocciare e quali meraviglia e stupore e neanche una virgola può interrompere tutto ciò che è sentimento e non narrazione!

l’isola mi rende così sottile da essere informe e onnipresente, così silenziosa da essere impercettibile.

[ph. bi]

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lettera

lettera di marzo

quando eri morto lo scorso marzo mi derubarono della primavera. il vento era vivo solo per i balconi e passava come un treno tra una palazzina e l’altra. soffiava in mezzo al sole e danzava con la pioggia e tutto era ogni mattino uguale al pomeriggio e lo stesso della sera, una vista perenne delle stesse viste.

mi tolsero gli abbracci. non proprio come il nostro, che terminava sempre con le dita che carezzavano reciprocamente le nostre schiene e si muoveva da sé con la sua tensione affettiva. ti sentivo piccolo e immenso, sconfinato e tenero, un grissino, uno stelo di sedano profumato, un ramo di limone fiorito. gli abbracci della consolazione, dico, pure quelli cancellarono, e nulla fu più come prima di quel dì di marzo.

di consolare il mare, mi rubarono, e le fioriture e le uscite e le entrate e il sonno e i sogni belli, anche, mi sottrassero. ché il risultato di una sottrazione è un resto e di me restava pure tanto, sebbene quel poco rimasto. le colline inoltre e i monti e mai più la neve e un tramonto riflesso nelle acque o un’alba timida tra le vette tagliarono per sempre – via.

nulla in quel marzo e aprile somigliava più alla vita, se non alcune dolci memorie, a cui davamo voce, e foto, a cui davamo luce, e pure quei progetti coraggiosi e pieni di esistenza presente e futura, che tu già sapevi – e sai e di cui nulla occorre ch’io ti narri ancora.

[ph. bi]

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#vitadibi

le finestre degli sconosciuti

mi piace osservare le finestre degli sconosciuti. mi piace immaginare i nomi e poi rubarli con gli occhi sui citofoni o sulle porte. mi piacciono le vecchie insegne, le cose passate, le narrazioni trapassate. mi piacciono le storie, le rovine, le macerie, i restauri. mi piace camminare, senza guardare dove poggiano i piedi. mi piace alzare gli occhi e avere più domande che risposte. mi piacciono gli esseri umani, mi piace ascoltarli con la giusta distanza, guardarli senza essere vista.

[ph. bi, sulmona, abruzzo.]

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lettera del vento

qui il vento si sbatte a vuoto, infilandosi nei cunicoli cittadini e tra le auto incolonnate. spira con ululati dolorosi e spietati, infligge sofferenze, perché per sé assai si strugge. la pioggia scende chiassosa e si schianta fragorosa sull’asfalto battuto. riempie vortici di buche sterili con la sacralità dell’acqua sua.

in montagna no. il vento sussurra tra le fronde e pare un richiamo per gli esseri visibili e invisibili. respira tra gli alberi, come se fosse un mucchio di polpastrelli, che si armonizzano sulla tastiera di un pianoforte. strappa le foglie dai rami e si materializza. lui, il vento. si fa carne. anche la pioggia suona la sua sinfonia cadendo sulle foglie e sulla terra secolare. e pure al mare no. il vento lì piange a dirotto e torna nel ventre dove nacque così perfetto.

piove, il vento è forte. i dove ti cambiano inesorabilmente.

 

[truc karma pic]

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