racconti

il due novembre è di chi resta

“qui radichi e cresca! non vuole, per crescere,
ch’aria, che sole, che tempo, l’ulivo!”
giovanni pascoli, canti di castelvecchio

il due novembre è dei morti. essi s’illuminano ancora, si cospargono di fiori allargati e dal profumo acre, tornano coi vestiti di una volta colorati di scuro e ben sistemati sui loro antichi corpi esili. tornano negli angoli di ciascuno, nei loro passi pieni di lumini da far brillare, nelle loro parole piene di eterni riposi, nei loro sogni, nei loro bisogni.

pare sempre nuvoloso il due novembre, come se il sole non sia necessario, ché i cimiteri da sé rischiarano i paesi e i loro contorni annebbiati. il vento parla deciso, passa la sua mano affettuosa sui visi schiariti da un ottobre trapassato, accompagna i pellegrinaggi tra le tombe piene di date e di presenza e per le cappelle spalancate.

entrate, non esitate. siete i benvenuti nella valle dei ricordi e delle memorie familiari. così pare che dicano i cancelli dei cimiteri aperti fino a tarda sera, che luccicano come i boschi di fine giugno abitati da tiepide lucciole. sono i lumi a scaldare a novembre, i bagliori minuscoli delle candele arrossate che resisteranno, se saranno fortunate, una manciata di giorni e di notti.

è una questione seria il due novembre, più dell’uno. la morte è una trasformazione che va celebrata, come una nascita, la morte è un aspetto della vita. anche io faccio il mio percorso dentro e saluto i miei nonni. sono ancora così, sempre uguali a prima, con quei visi frontali e tatuati di lavoro e di fatica.

paolo non l’ho mai stretto corpo a corpo e l’ho sempre immaginato alto quasi un metro e settantacinque, magro e diritto, sorridente e furbo. uno dagli occhi brillanti. chi parla di lui lo fa ancora con grande rispetto e sorride. paolo è un sorriso mai incontrato e sempre ricambiato.

anna l’ho amata fin da bambina sul mio divano di velluto color castagna. ampia e vestita di lane arruffate, con lunghi capelli argentei acciuffati in una cipolla poi ben intrecciata alla nuca. una diana cacciatrice, che profuma di casa e di robe cucinate e di pane cotto al forno. regna ancora lì: seduta con fierezza nell’angolo del terrazzo solo suo, accanto alla sua fedele rosa spinosa, su una sedia impagliata e leggermente deformata, sulla quale c’accoglieva in ogni istante.

passo sempre da enrico, che è zio e fratello maggiore di molti e di mia madre. è morto nell’ottanta di tumore all’esofago ed è bello come pochi altri uomini mori e di montagna. alto, discreto ma sicuro di sé, taciturno, vigile come un falco e regale come un principe delle foreste nordiche. lo ritrovo sempre avvolto nel suo sguardo malinconico e un po’ solo, uno degli ultimi condivisi coi vivi – credo.

zio bino è lì che sorride e accoglie tutti. è come se stesse ancora di fronte al suo camino di marmo bianco, infilato nella giacca grigia da maestro severo e capricornino. come se stesse in cima allo scalino del camino, ciondolante sulle punte delle sue scarpe stringate in pelle nera, pronto a dirmi: “be’, allora che cosa stai studiando?” e a farmi sedere al suo fianco sinistro, per vedere un film di totò o un giallo di hitchcock.

cammino, scansando piante ancora incartate e piene di petali violacei o accesi di giallo. il silenzio domina nella valle e mi sento a mio agio. ci andavo anche di notte, per gioco e per sfida, nelle mie estati abruzzesi di tanti anni fa. e lì, allora, i vicoli apparivano delle possibilità spaventose e opprimenti. ora non più.

arrivo con la macchina la sera ed è una festa silenziosa di luci, che si estendono lungo tutta la valle di santo martino e disegnano presenze remote. immagino il fare disinvolto delle donne che hanno trascorso i giorni appena accaduti a pulire le lapidi, a far sparire fiori secchi e piante sfinite, a pregare mentre spostano la scala alta con le ruote grandi.

il due novembre è di chi resta. di chi fa sparire le pupille al di sotto delle palpebre umide e prova a rappresentarsi nella testa il percorso che dalla vita porta a un altrove sconosciuto, abitato da una luce supposta. mi piace il due novembre, mi piace pensare che non ci si scordi di nessuno e che anche i morti più vecchi tornino nelle parole di un presente che non li vede protagonisti.

il due novembre è imbottito di boccioli appena nati, di cimiteri ripuliti e coi varchi allargati, di persone che s’incontrano e si raccontano le cose accadute negli ultimi mesi, di lacrime sommesse, di preghiere dilatate e di luci. luci accese in ogni dove. luci naturali di candele. luci narrate e non più solo intraviste. luci coraggiose, che cantano esistenza. luci che incendiano memoria orale e scritta. luci dei lumini.

il due novembre è della luce e di chi ha ancora voglia di accenderla, com’a dire che la morte, in fondo, è una candela che arde sempre.

[ph. bi]

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dormi pure tranquilla

non so se mai mi mancherai, novembre. tu e il tuo tiepido abbraccio degli inizi, quel quieto stato di inerzia e di accoglienza, preludio delle peggiori fini. hai steso la tua mano corvina sulle ombre e le hai rese carne incenerita. mucchi scomposti di polvere mi hanno serrato le narici e abbassato le palpebre e tappato le orecchie. hai sottratto il gusto sottile alle cose e hai imprigionato questa forma debole in un dolore antico e spietato.

non so come si fa, novembre, a sopravvivere alla vista di così tanti tagli inferti, al bruciore delle ferite, al silenzio del vuoto costretto, al respiro che resta intrappolato in pieno petto. hai arso la superficie della terra e strappato via le foglie dalle braccia delle loro madri e incendiato le notti e tirato negli abissi tutto ciò che ti stava opponendo resistenza e ammalato corpi incerti e tirato via budella dagli intestini più tenaci e ingrossato fegati e acceso ire funeste e inciso lividi.

non so come mai, novembre, con te è sempre odio e amore e odio ancora. sei tenebra e tempesta, fango che inquina le acque più limpide – e poi morte e poi resurrezione. talvolta mi chiedo come sarebbe senza di te, novembre. ma nessuna risposta arriva. si ripresenta solo la certezza che tornerai, vestito di nuovo e pronto a rendere i tuoi conti ben fatti. tu, che mai torti hai.

non so come si rinasce, novembre. attraverso volontà e coraggio, ma anche con l’arresa. così mi ha raccontato durante una delle tue notti una carezza sul mio capo agitato. avevo il cuore impazzito e la paura a paralizzarmi gli arti. non vengo a strapparti alla vita – così mi ha detto. dormi pure tranquilla.

 

[ph. andrej tarkovskij "instant light"]

[ph. andrej tarkovskij “instant light”]

“non più la luna è cielo a noi
che noi a la luna”
giordano bruno, la cena de le ceneri

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