lettera

è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro

senza di me un domani mi svegliai.
avevo il collo inumidito dai percorsi della notte e la pelle intrisa degli incontri segreti.
senza le mie notti che scorrono rapide, i giorni non m’apparirebbero così allungati e fiacchi.

(la luce è un respiro che sopravvive per l’ombra dell’apnea).

senza quel domani, non arderei del desiderio d’invertirmi, di capovolgermi in aria nei tempi, come se nuotassi.
è un perdere senza perdermi.
senza questa forza in me centripeta, non mi spingerei nel vortice dell’abisso mio.

(m’ingoia, null’altro posso: l’assecondo).

senza allontanarmi dallo stare, non potrei affondare nel mio essere, né nell’esserci.
è nella natura delle cose mie: il distare.
senza ch’io distassi in questi cieli, il vicino non sarebbe mai toccato e il lontano sarebbe un’eco penosa e invera.
senza queste fitte impervie sotto alle costole,

(una a una, sì che, premendo, sfiatino di vita)

non abiterei luoghi tali da rendere vere le concezioni del mondo.
senza questo dire tutto al singolare, non il plurale potrebbe nascere, se non storpiato e mancante di perenni assenze.
senza quest’uno, anche scolorito, anche stiepidito, nessun due potrebbe sopravvivere indenne.

è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro.

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racconti

accadimenti di un attimo di febbraio alle sette

piove a dirotto.

piove che il cielo sembra non riuscire più a contenere quel pianto e lo vomita alle sette di sera. è buio, un buio di febbraio delle sette di sera.
gio s’infila il cappuccio sul capo ed esce rapidissima dalla macchina. il cuore le galoppa impazzito e sembra sbalzarle fuori dal petto, mentre corre e va a infilare la lettera nella cassetta della posta di lui, sperando con tutta se stessa che nessuno la veda e che lui non torni in quell’attimo. poi scappa via come una ladra.
è bellissima gio. pure con tutti i pedicelli sotto al mento e quell’aria spocchiosa da diana la cacciatrice. perché non gliela avesse inviata per posta? perché avrebbe dovuto sapere che lei, proprio lei in carne, fosse stata lì, sotto al suo balcone, e che l’avesse persa solo per un attimo…
era stato lui ad averla lasciata, perché non era più capace: così le aveva rivelato. e lei non se ne capacitava e la notte non ci dormiva e ai ricordi solo belli ripensava e ai luoghi vissuti insieme e al mare e alla neve e il pianto la affliggeva e di giorno si spaccava la testa pur di capire che cosa avesse voluto dire quel non-esserne-più-capace e come mai e perché quel no invece di un sì!
mai seppe se lui la lesse. se la lesse in cucina con il giaccone ancora addosso semiaperto. oppure nell’androne, ancora incredulo e appena incerto, prima di salire le due rampe di scale e rientrare in casa. oppure al mattino successivo, dopo aver preso nella nottata continue forsennate boccate d’ossigeno. non lo seppe, né volle saperlo mai. mai. mai. la lettera divise i loro corpi per sempre.

piove a dirotto.

ari è chiusa in macchina, piena d’ansia e di rossetto rosso. i capelli sono lisci e ordinati e gli orecchini neri pendono eleganti appena sopra alle sue spalle. ascolta distrattamente canzoni a caso passate in radio, mentre la città la trapassa con le sue luci chiassose del traffico delle sette di una sera di febbraio. tutti sono impazienti di tornare a casa, mentre lei da casa è uscita da poco meno di mezz’ora: ha un appuntamento, un appuntamento con lui.
il giorno in cui lo incontrò, rimase impigliata in quello sguardo magnetico. un percorso intenso, onirico, ombroso… dannatamente bello quello sguardo, da averla fatta annodare: uno sguardo dal quale non s’era più riuscita a separare. oh, che tonfi diretti in pancia! la aspettava da tempo un’emozione così travolgente, da restarci sveglia all’una di notte con lo stomaco in gola, così densa da credere che sì, la vita li avesse fatti incontrare proprio lì, in quel matrimonio distratto. distratto per tutti, ma non per loro.
ari lo cercò e quasi subito, per caso, lo trovò tra le foto degli invitati. lui le spalancò sorrisi telefonici e si parlarono a lungo, prim’ancora di vedersi, narrandosi delle molte similitudini e delle magnifiche differenze, desiderosi di rivedersi e di restituire ai loro occhi la sublimazione di quel primo incontro. lunedì sera alle sette sarò tutto tuo. lui pronunciò proprio queste parole, senza esitazione alcuna, e lei precisa e puntuale ne restò agganciata dall’ombelico ed era giunta fin sotto casa sua il sette febbraio alle sette.
ari è lì, sente quella musica che le cola addosso, il cuore le sta per esplodere, i flussi dei pensieri si attorcigliano a lei e la lasciano di nuovo senza fiato. a un tratto tira su tanta aria dal naso e tutto improvvisamente si ferma. giusto un attimo prima di scendere, un braccio invisibile la prende e la blocca e la trattiene severamente inchiodata sul sedile, un momento prima di arrivare dove lui già la sta aspettando.
ari è bellissima, con quel suo rossetto ciliegia e il cappotto corvino e quella forte luce accesa negl’occhi e un cerchio invisibile di energia. è poco consapevole e piuttosto confusa, ma pure piena di sé. all’improvviso ha chiaro in testa che chi ti vuole non si fa aspettare in un luogo: semmai ti raggiunge nel tuo. decisa e malinconica, riaccende la macchina e va via.
non seppe mai più cosa pensò lui di quell’attimo di attesa. se la aspettò anche dopo. o se smise in poco tempo, dimenticandola. lui tacque e non rispose più. e ari ebbe solo la certezza che lei, andandosene, si fosse salvata la vita.

piove a dirotto.

gigi l’ama quella melodia dell’acqua, che si frantuma sulla finestra, e se la guarda compiaciuto, così grigia e così liscia e così potente. febbraio è freddo e umido. febbraio è corto, è come una canoa che ti traghetta dall’inappetenza dell’inverno alla speranza della primavera. è febbraio, non c’è dubbio, e sono le sette di sera di un sette di pioggia. e la pioggia purifica, dice gigi, lava l’aria, cancella le maldicenze, scrosta le cose cupe, si porta via i pensieri scomodi.
è steso nel suo letto e guarda un po’ fuori dalla finestra, un po’ il soffitto di legno, un po’ chiude gli occhi. ed è appunto quando li chiude che la vede! e li mantiene chiusi, per tenersela lì. la sta aspettando, poiché lei ha detto che sarebbe arrivata prima di cena, per le sette. gigi le ha già comprato le sue cose preferite da mangiare insieme, accompagnate da un buon vino bianco dai profumi floreali.
lei è come i fiori d’inverno ai suoi occhi. lei è una ventata di passato, che lo avvolge nel presente. lei è un po’ pazza, un po’ strana, un bel po’ diversa dalle altre. e la sente così tanto sua, da non sentire più il confine tra il proprio cuore e quello di lei.
un giorno la sposerà, o forse no. un giorno comunque, ne è certo, vivranno sotto allo stesso tetto e guarderanno lo stesso soffitto e respireranno la stessa aria viziata e cucineranno insieme chiusi nella stessa cucina e guarderanno uniti la pioggia e si laveranno nello stesso bagno con la stessa acqua. questo lui lo sa bene.
proprio in quell’attimo il campanello suona. rompe il silenzio di quei pensieri e penetra in quel momento forte e chiassoso. gigi spalanca la porta e il suo timido sorriso. è lei. è lei ed è bellissima. la guarda curioso e, in un attimo, lei gli cinge il collo, gli strizza la gola e lo bacia senza fiatare.

gli attimi di febbraio alle sette sanno essere spietati – ma pure dolcissimi. attimi per sé. attimi di tutti. intimi attimi di ciascuno. attimi fatti dell’infinità di tutti.

[image: la pioggia, marc chagall]

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lettera

lettera dell’attimo prima

nell’attimo prima di alzarmi, conto le ore dormite e ripercorro quei luoghi lontani e offuscati, in cui un pezzo essenziale di me è stato di notte. sa tutto di crema al limone ed è vestito di zucchero a velo. il caldo ancora mi stringe a sé e vorrebbe continuare, se solo io restassi, se solo io non l’abbandonassi.

nell’attimo prima di scegliere una canzone, ripenso a quella volta in cui vagavo spenta in centro. tutto faceva chiasso, mentre io mi sentivo morire dentro. avevo perso la mia crema al limone. mi ritrovai ad ascoltare musica in un negozio enorme e pieno di luci bianche, con due grosse cuffie nere che non mi coprivano solo le orecchie, ma anche una parte di mente e uno spicchio di cuore. ascoltavo quella voce angelica cantarmi nelle tube, cantare solo per me. intorno era pieno di corpi, eppure io ero sola – e pure in piena trasformazione.

nell’attimo prima di mangiare, penso a mio padre e torno ai miei pensieri di allora, solo miei. mangiavo solo le cose che mangiava anche lui, dicevo le cose che diceva lui, mi arrabbiavo come si arrabbiava lui, suonavo la sua chitarra stonando, invece lui le esaltava l’anima. poi un giorno ho smesso. ho capito chi fossi e ho tirato fuori con coraggio la disobbedienza e la contestazione. tuttavia non ho mai abbracciato nessuno come ho abbracciato lui.   

nell’attimo prima di svenire, mi alleggerisco. sento sparire il confine tra me e la mia materia e sento di compiere un passo in avanti. non indietro, in avanti. gli occhi si sfibrano e le immagini prevedibili e regolari sbiadiscono in un liquido puntinato e grigiastro, dai contorni un po’ viola e un po’ no. le orecchie anche si sfumano in un’eco sempre più lontana e quello, che fino ad allora era di qua, in quel momento se ne va al di là. mi siedo o mi sdraio, così non sbatto. tanto io so bene com’è: me ne vado un attimo, ma torno subito.

nell’attimo prima di fine anno, penso sempre che l’anno sia appena iniziato. l’anno mio inizia a settembre, non a gennaio. a gennaio non ho le forze, a gennaio sto al chiuso e sotto alle coperte. quello che tutti chiudono in quei giorni chiassosi, che sarà poi non so più cosa, io lo chiudo ad agosto, prima di andare in vacanza. poi a settembre sento la forza dell’inizio, un impeto di energia e vita, quasi come quando guardo un foglio bianco e la testa è già piena di parole: è l’istante prima in cui non me ne viene in mano neanche una per iniziare, poi comincia a sgorgare un fiume.

nell’attimo prima di ricomporre i pezzi, mi chiedo se la cosa vada riparata o lasciata a se stessa. i pezzi sono nuova vita, no? un vaso rotto non torna mai più vaso, ci sarà sempre un alito di spazio tra una scheggia e l’altra, in cui la materia è tornata a essere aria. i pezzi sanno di vita nuova e per me non occorre ricomporli. basta dare loro un nuovo nome e si sentiranno appena nati, anziché appena morti.

nell’attimo prima di spegnere la luce, penso alla paura del buio. alle volte la sera, quando proprio non ne potevo più, scappavo al piano di sopra per andare in bagno. tutti restavano nel salone, mentre io in solitudine uscivo, accendevo la luce e correvo svelta su per le scale, facendone due per volta. uscita dal bagno, un giorno trovai la luce spenta. richiusi la porta, mentre il cuore si stava per staccare dal resto di me. non mi sono mai fidata del buio, perché non mi ci sono mai sentita sola. nel buio c’è sempre stato qualcuno alla mia sinistra.

nell’attimo prima di addormentarmi, prego. lo facevo con mia madre, dentro al letto suo. ci raccoglievamo sotto alle coperte, noi due da sole, e io ripetevo quelle nenie dopo di lei. frase per frase, fino a impararle, ché non sapevo ancora leggere. sembravano poesie, sembravano un dono dalla sua alla mia bocca. una musica solo nostra, in cui il resto del mondo era solo pensato e non era lì dentro. restava fuori. le mie piccole mani erano chiuse tra le sue e il suo profumo, sentito in altre vite, si attorcigliava come una corda lenta e dolce tra di noi. le mie idee di oggi si costruirono lì, in quei momenti segreti con lei.

l’attimo non può essere soltanto un punto. l’attimo è più grande di un punto. è un punto che racchiude un infinito.

“è così che muoiono le infanzie, quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. non c’è allora altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva. la vita è breve, ma in essa entra più di quel che siamo in grado di vivere”.

josé saramago, “di questo mondo e degli altri”

[immagine di ari-zuka, tratta da “pop surrealist”]

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lettera

lettera da palermo

che ti sia di consolazione la bellezza.

mi trovavo di fronte alla fragilità di un tramonto visto dall’aereo, che squarciava in due il cielo col suo sangue rubino, e poi a quella dell’atterraggio, che sembrava sbriciolare la terra sotto alle ruote. sono giunta in questa città, che taceva più di parlare, tra i suoi vicoli bui e pieni di occhi. i suoi abitanti succhiavano linfa dall’asfalto inaridito e camminavano tra le debolezze di una ricchezza passata e cenni di una moderna precarietà. 

mi sono trovata a passare attraverso sapori, che non potevo raggiungere fino in fondo e che mai sarei riuscita a possedere – ma che già si stavano impossessando di me. ho incontrato un uomo seduto in un angolo, ripiegato sui suoi arti deboli, che pareva non vedere, né ascoltare, e che ha ricambiato un timido “arrivederci” con alcune sillabe di gentilezza, scritte con la saliva sulla lingua. la sera stessa sono stata stretta dall’abbraccio in osteria della nostra ospite, che, sorridendo, ha pronunciato quel “a presto!”, a cui tutte abbiamo creduto fino in fondo e che ci nutrirà – ne sono certa – di remote nostalgie. una città che t’accoglie, questo posso dirti, per non lasciarti più andar via. piena dei suoi errori, della decadenza di cui si è imbevuta e dell’oro, che la fa ancora luccicare. e se pensi di essere splendida, gentile, profonda, dura e fragile – come un cristallo – è solo perché non sei mai stata al cospetto di palermo.

che ci sia di consolazione la bellezza – dicevo – l’armonia, che giace nell’ordinata disposizione delle proporzioni; l’impeto, che pulsa nell’asimmetria delle parti; la rovina, che ci sottrae e ruba lo sguardo per l’inimicizia delle parti. la bellezza che strozza, una sottile seduzione, che pervade e inebria i sensi, un interstizio, in cui fluttuano e danzano chi percepisce e chi viene percepito, un accostamento tra diversità, che fluiscono in questo stesso luogo trasversalmente, come in un gerundio mai fisso.

come potrebbe sopravvivere il mondo senza la bellezza? senza l’inesorabilità del tempo che scorre, ma resta fisso in questo luogo d’incontro, senza lo stupore, che cattura l’anima e non la lascia più uguale a prima.

qualcosa di se stessi e degli altri si perde e si conquista ogni giorno, ti dico. e l’imbrunire sta ora giocando col mio sguardo e mi fa colare addosso un fresco blu. mi lancia nubi come petali e fiori come minuscoli cieli, mentre languida e quasi felice vago immobile per l’aspro odore scuro di queste sere qui e ti racconto di questa città interiore. 

[“olympia” di edouard manet]

“non mi piace la gente la cui mente non sa riposare in silenzio, il cui cuore è granitico agli altri senza sosta, la cui sessualità è perennemente insoddisfatta, il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo. ”

alejandro jodorowsky

 

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lettera

lettera bianca

quattro maggio duemilaventuno

cara bianca,
la vita scorre e lo fa a modo suo, talvolta a prescindere da noi. è un periodo assai granitico e caldo, momenti di incertezza si intrecciano a grandi, potenti gioie. piove sottile e senza vociare. l’assiolo torna ogni sera e lancia i suoi discorsi anche di giorno.
gli esseri umani provano ancora ad alleggerirsi lo stomaco, vomitando sugli altri le responsabilità proprie. tuttavia il dialogo fermo restituisce loro i propri macigni. a ognuno il suo – e così sia.
ora il venerdì è fresco come un tuffo in un torrente, sa di sale e di mare e di terra e di radici intrecciate, è avvolto da un’aura innamorata, parla piano e cammina lento. come un fiore, parlo con l’aroma dei miei petali di cotone bianco, sorseggio pioggia selvatica e mi stringo nell’abbraccio azzurro del mio mare, che mi dorme ogni notte accanto. come un fiore, le mie parole paiono polline sfumato che scorre lieve, accompagnandosi al vento, e accolgo il passare del tempo con la certezza della vita il giorno dopo.
non sono più stanca, né inciampo: io sono.
ed è tutto da qui, con gioia – mai scontata, sempre scelta.
e basta.

[image by martina heiduczek illustrates]
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lettera

lettera dalla clausura

la nuova disciplina delle ore

è aprile duemilaventi. non riesco a svegliarmi alle sei, ma alle sei e quaranta sì. faccio colazione con mia madre e ci riempiamo di baci, dopo esserci narrate la notte appena trascorsa. talvolta lei conta le sue ore e veglia. i miei sono incubi mostruosi e lei lo sa, altri sono incontri e lei lo sa.
esco in mezzo al deserto, per andare a lavorare. le circostanze sono restrittive, ma ri-conosco il valore di queste nuove otto ore in industria. siamo tutti collegati e anche qui, lo vedo, il mio pezzo appartiene a una lunga catena, in cui ci sono famiglie di una persona, famiglie con figli, famiglie con sottrazioni. il clima ha uno spessore invernale e rigido, ma io decido di non lamentarmi. sono grata. avrei potuto perdere già metà stipendio, invece è parzialmente ridotto. avrei potuto perdere più di quanto marzo mi abbia già tagliato con una falce affilata e – diciamolo pure – crudele. ma resto grata.
quando esco, faccio un giro più largo e non incontro quasi nessuno. siamo bravi, mi dico. siamo bravi tutti i giorni, come possiamo. senza rabbie, senza lamentele inutili, senza giudizi, senza superficiali blablabla, che inquinino quest’aria che, invece, è più tersa.
sono riempita d’amore, di un amore maturo, caldo, largo, riccio, sorridente, che cura, che protegge. un amarsi di presente e futuro tutto assieme, che non sto qui a dire.
mia madre continua a pensare al nutrimento. lei è nutrimento e accoglie tutti in questo suo insieme ampio e sottile. ceniamo, raccontiamo, scambiamo pensieri solidi e anche fragili. c’è amore, non manca nessuno, preghiamo – ognuna a suo modo e in ritiro con se stessa. lei m’insegnò così, quando ancora non sapevo nemmeno leggere. è un momento sacro, che per nulla attiene alle religioni intese in senso comune. va sopra e sotto al comune senso del dire e del fare.
vivo poco nel balcone, ma ci vado per farmi schiaffeggiare un po’ dalla tramontana. il cielo è più limpido, gli uccelli vociano più forti, il silenzio delle strade fa emergere gli animi nella loro nudità – quella di tutti.
la sera ci infiliamo nei nostri letti. il mio presto dormire è diventato prestissimo: mi coglie una stanchezza artificiale che non so dire. la assecondo e spero di non avere un altro incubo. se arriva, il petto sembra esplodere, ma poi tanto si placa. mia madre mi bacia. io la bacio. non siamo diventate delle isole e non abbiamo mai interrotto il nostro contatto, per non ammalarci e per trasformare il lutto in amore. più amore di prima.
arriva poi la notte, che pare sempre uguale e invece no.

[ph. bi]

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racconti

il due novembre è di chi resta

“qui radichi e cresca! non vuole, per crescere,
ch’aria, che sole, che tempo, l’ulivo!”
giovanni pascoli, canti di castelvecchio

il due novembre è dei morti. essi s’illuminano ancora, si cospargono di fiori allargati e dal profumo acre, tornano coi vestiti di una volta colorati di scuro e ben sistemati sui loro antichi corpi esili. tornano negli angoli di ciascuno, nei loro passi pieni di lumini da far brillare, nelle loro parole piene di eterni riposi, nei loro sogni, nei loro bisogni.

pare sempre nuvoloso il due novembre, come se il sole non sia necessario, ché i cimiteri da sé rischiarano i paesi e i loro contorni annebbiati. il vento parla deciso, passa la sua mano affettuosa sui visi schiariti da un ottobre trapassato, accompagna i pellegrinaggi tra le tombe piene di date e di presenza e per le cappelle spalancate.

entrate, non esitate. siete i benvenuti nella valle dei ricordi e delle memorie familiari. così pare che dicano i cancelli dei cimiteri aperti fino a tarda sera, che luccicano come i boschi di fine giugno abitati da tiepide lucciole. sono i lumi a scaldare a novembre, i bagliori minuscoli delle candele arrossate che resisteranno, se saranno fortunate, una manciata di giorni e di notti.

è una questione seria il due novembre, più dell’uno. la morte è una trasformazione che va celebrata, come una nascita, la morte è un aspetto della vita. anche io faccio il mio percorso dentro e saluto i miei nonni. sono ancora così, sempre uguali a prima, con quei visi frontali e tatuati di lavoro e di fatica.

paolo non l’ho mai stretto corpo a corpo e l’ho sempre immaginato alto quasi un metro e settantacinque, magro e diritto, sorridente e furbo. uno dagli occhi brillanti. chi parla di lui lo fa ancora con grande rispetto e sorride. paolo è un sorriso mai incontrato e sempre ricambiato.

anna l’ho amata fin da bambina sul mio divano di velluto color castagna. ampia e vestita di lane arruffate, con lunghi capelli argentei acciuffati in una cipolla poi ben intrecciata alla nuca. una diana cacciatrice, che profuma di casa e di robe cucinate e di pane cotto al forno. regna ancora lì: seduta con fierezza nell’angolo del terrazzo solo suo, accanto alla sua fedele rosa spinosa, su una sedia impagliata e leggermente deformata, sulla quale c’accoglieva in ogni istante.

passo sempre da enrico, che è zio e fratello maggiore di molti e di mia madre. è morto nell’ottanta di tumore all’esofago ed è bello come pochi altri uomini mori e di montagna. alto, discreto ma sicuro di sé, taciturno, vigile come un falco e regale come un principe delle foreste nordiche. lo ritrovo sempre avvolto nel suo sguardo malinconico e un po’ solo, uno degli ultimi condivisi coi vivi – credo.

zio bino è lì che sorride e accoglie tutti. è come se stesse ancora di fronte al suo camino di marmo bianco, infilato nella giacca grigia da maestro severo e capricornino. come se stesse in cima allo scalino del camino, ciondolante sulle punte delle sue scarpe stringate in pelle nera, pronto a dirmi: “be’, allora che cosa stai studiando?” e a farmi sedere al suo fianco sinistro, per vedere un film di totò o un giallo di hitchcock.

cammino, scansando piante ancora incartate e piene di petali violacei o accesi di giallo. il silenzio domina nella valle e mi sento a mio agio. ci andavo anche di notte, per gioco e per sfida, nelle mie estati abruzzesi di tanti anni fa. e lì, allora, i vicoli apparivano delle possibilità spaventose e opprimenti. ora non più.

arrivo con la macchina la sera ed è una festa silenziosa di luci, che si estendono lungo tutta la valle di santo martino e disegnano presenze remote. immagino il fare disinvolto delle donne che hanno trascorso i giorni appena accaduti a pulire le lapidi, a far sparire fiori secchi e piante sfinite, a pregare mentre spostano la scala alta con le ruote grandi.

il due novembre è di chi resta. di chi fa sparire le pupille al di sotto delle palpebre umide e prova a rappresentarsi nella testa il percorso che dalla vita porta a un altrove sconosciuto, abitato da una luce supposta. mi piace il due novembre, mi piace pensare che non ci si scordi di nessuno e che anche i morti più vecchi tornino nelle parole di un presente che non li vede protagonisti.

il due novembre è imbottito di boccioli appena nati, di cimiteri ripuliti e coi varchi allargati, di persone che s’incontrano e si raccontano le cose accadute negli ultimi mesi, di lacrime sommesse, di preghiere dilatate e di luci. luci accese in ogni dove. luci naturali di candele. luci narrate e non più solo intraviste. luci coraggiose, che cantano esistenza. luci che incendiano memoria orale e scritta. luci dei lumini.

il due novembre è della luce e di chi ha ancora voglia di accenderla, com’a dire che la morte, in fondo, è una candela che arde sempre.

[ph. bi]

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lettera

lettera della nascita

in tua assenza, io sono nata di venerdì. sono nata ch’era caldo e tutti avevano fretta, tranne mia madre. mio padre lo mandarono via e tornò che io ero uscita svogliatamente. sono nata che ci ho messo tre giorni, pensata e ripensata. sono nata già vecchia e con la mano destra posata sul mento. sono nata con la pelle di cristallo. sono nata già sola, già lasciata. sono nata e nella linea paterna ero la prima. sono nata e mio padre disse: barbara! non porterà il nome di nessun altro – vivo o morto. sono nata e mia madre stava per morire. sono nata e non ne ero convinta. sono nata gemelli ascendente leone con la luna in ariete e mercurio in cancro e venere in toro – e si vedono tutti nel modo in cui mi muovo e in cui sto ferma. sono nata e volevo solo una sorella. sono nata sveglia e gentile. sono nata per imparare a essere fiera. sono nata quasi senza posto, per costruirne uno. sono nata per dire: io sono. sono nata alla fine delle scuole e con l’oro dei campi di grano come radici. sono nata piena di parole e di silenzi. sono nata verde, per diventare azzurra. sono nata e ho cominciato a fuggire. sono nata pesante e, crescendo, sto imparando la leggerezza e a restare e a scegliere e a pronunciare i no e a ad amare in profondità e senza se e senza ma.

sono nata per includerti.

non mi so separare
non amo la fine
la morte accade – sì
e intanto mi spezzo
torno indietro
lacrimo rapida
non accetto gli addii
serro le labbra
scoppio nel petto
– e mi frantumo dentro

[ph. bi]

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lettera

lettera dell’infanzia

c’era la piccola bici bianca, che, posando io i miei brevi piedi sulla terra, decisi a radicarsi, mi lasciava pure le ginocchia un po’ piegate; i miei capelli, che si spostavano un poco col vento gentile e le vicine di nonna a., che le strillavano della mia bellezza e di quanto sembrassi un piccolo maschio dall’anima femmina.
c’erano le sue ferratelle, di nonna a., preparate durante il silenzio del pomeriggio alle tre nella cucina al piano di sotto. ella versava l’impasto dorato nella piastra, mormorava un’ave maria da una parte, un’ave maria dall’altra e ognuna di esse usciva cotta perfettamente: croccante, bella come le sue guance accese di rosa.
c’era v. e c’era sua sorella, nella casa accanto, dove mia nonna non mi faceva entrare. non è una famiglia che va bene per te, mi diceva senza sorriso. poi un giorno vi entrai: mi sentivo una ladra di libertà e mi batteva forte il cuore, per averle disobbedito, ma entrai – eccome. la sorella innominabile di v. giaceva su un letto, appena entrati sulla sinistra. aveva dei lunghi capelli neri, lasciati a cadere verso il pavimento. una voce stridula e non armoniosa, che sembrava venire da altrove, dei versi senza parole, circondavano la stanza grigiastra. l’avevo sempre immaginata piccola, a sentirla, una bambina capricciosa e fuori dal comune, invece era lunga e sbordava dal letto come una coperta. il loro segreto era lei e la paura di mia nonna era ch’io la vedessi e le volessi parlare e volessi pure delle risposte a quei miei interrogativi indicibili su di lei.
c’era questo e pure mio nonno f., che mi guardava fisso con la bocca appena dischiusa e gli occhi accesi di un intenso e freddo blu, che voleva solo stare seduto e che io leggessi per lui.

[ph. bi]

ha capelli
il cielo
ha fili di vita
appesi
e ricami scuciti

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